Nel museo Pascali di Polignano l’intrigante «personale» di Claudio Cusatelli. Trame di colore graffito evocano avventure individuali e collettive.
di Pietro Marino
E’ una emersione importante da un lungo seppure operoso silenzio, la personale di Claudio Cusatelli nel Museo Pino Pascali a Polignano a Mare. Bene ha fatto la direttrice del Museo, Rosalba Branà, ad organizzarla, aldilà delle motivazioni di sodalizio nel gruppo Zelig e della comune scelta di vivere nell’abbazia di San Vito. La mostra infatti recupera la presenza pubblica dell’artista barese, ora che si avvia verso i fiorenti 50 anni, ad un livello di impegnata complessità. Attrae da sempre la tecnica di Cusatelli per la precaria eleganza: pastelli a cera di brillante timbro cromatico, da cui le immagini affiorano per raschiamenti, abrasioni, piccole ustioni. Una pittura, insomma «per via di levare». Ma l’inquieto décor dei graffiti è ora al servizio di intrighi concettuali. L’artista ingrandisce in pittura impronte delle sue dita o della mano (raramente di altri: vedi l’imprimitura delle labbra di Baba, la sua compagna) come tracce di identità attribuita a persone mai viste e conosciute, nomi estratti dall’anonimato casuale della cronaca.L’Imprinting su cui si misura Cusatelli non nasce dal vuoto. Apparvero nel 1960 a Milano le «Tavole di accertamento» di Piero Canzoni: impronte digitali esibite come certificazione, dichiarazione di identità, appunto. Contemporaneamente a Parigi Yves Klein faceva imprimere sulla tela i corpi di giovani donne nude su cui aveva spalmato il suo magico blu (le «antropometrie»). Dagli anni Settanta ad oggi, diversi artisti di area concettuale hanno proposto piante e mappe di città, o grafici di linee urbane, come sistema di segni che dichiarano anch’essi misteriose avventure collettive, o proiezioni labirintiche dell’esistere. Del resto l’immaginario urbano ha sempre intrigato Cusatelli, almeno da quando lo conosco io – dal ritorno a Bari dopo gli anni romani. Era il 1988 se non sbaglio, quando si presentò con i quadri in cui vibravano architetture metropolitane, sogni di città lontane come Hong Kong.
Vibrazione che si è andata immergendo nella texture cromatica fatta e disfatta. Negli anni, le sue figure si sono date come sgranate apparizioni su uno schermo disturbato. Un immaginario che alterna fascinazioni esotiche (animali fantastici, grandi rose) a evocazioni di personaggi del cinema o della musica. Anche la mostra di Polignano si apre con un ritratto di Miles Davis, il celebre musicista jazz. Sarebbe un fuor d’opera, se non citasse un percorso semantico significativo. Il ritmo discontinuo del jazz è infatti una chiave di passaggio alla pittura destrutturata, che procede accostando e ripetendo i suoi segni, come un mosaico o puzzle. Ne è chiaro richiamo la saletta in cui l’artista ancora si discosta dal tema urbano. Espone una serie di piccole visioni ispirate all’Africa – un’Africa favolosa – composte seguendo le lettere dell’alfabeto dalla A alla Z, che ispirano una specie di litania poetica. Anche questo processo combinatorio ha la sua fonte, a cui Cusatelli dedica esplicito omaggio: Alighiero Boetti, il tessitore delle mappe del mondo, il catalogatore di icone. Come dire: l’ordine concettuale dei segni sublimato nel piacere del colore.
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