di Dino Borri
Qual è il fil rouge che lega le città di Addis Abeba, Bucarest, Calcutta, Gerusalemme, New York con il suo Bronx, Sofia, Timisoara, o la Palestina di una band multietnica, e il planisfero? Cosa lega, in vari toni di arancio, blu, indaco, grigio, rosa, rosso, verde, viola, le trame urbanistiche doppie, insieme geometriche e organiche, di Addis e di Calcutta, la geometria irregolare di Bucarest e quella implacabile di New York, le scacchiere di Sofia e di Timisoara, o – quasi in un gioco notturno cinese – le ombre dei continenti dei mondo, alle impronte di mani, scarpe, bocche, di Ayele Kidan, Chandra Shabvala, Mattei Gheorghiu, Roy Thompson, Martina Zivkova, Jancu Petrescu, Nabil, dei cinque di Zelig?
Trame architettoniche urbane, geografie, impronte di corporeità umane accostate, a suggerire una essenziale doppiezza di fenomenologie. Parti di città, spazi, corpi, che, enucleate dagli organismi, alludono alle rispettive totalità ma non risparmiano dal disagio della decostruzione e dal mistero di quanto è residuo, altro, frammentario, straniero.
Una maniera tecnica, insolita e complessa, che accumula prima strati su strati di differenti cere colorate su un disegno di base, scava poi nell’impasto stratificato per cercare nuances quasi fauves o divisioniste di tinte e di forme organiche o geometriche, sembra far tutt’uno con l’essenza del ciclo città e corpi.
Di Claudio Cusatelli ricordo precedenti geometrie, forse anche meno urbane ma certo meno intrigate dalla corporeità delle odierne, straordinarie nature insieme dolci e violente di animali e di piante, e poi ancora ombre di corpi drammaticamente colorate su sfondi di interni forse urbani nel ciclo dei cinema. Ora la città riappare con forza nel dissidio tra pietre e viventi da cui è egualmente e essenzialmente costituita. Si tratta della metropoli o della megalopoli (Calcutta, New York) contemporanea, delle ibride e bastarde Mongrel Cities (Sandercock 2004), o delle Città Morenti e Cìttà Viventi (Scandurra, 2003), delle tante città odierne di ibridazioni e contaminazioni dove differenti linguaggi simbolici, verbali, musicali, gestuali, emozionali, differenti colori della pelle, religioni, culture, preferenze, differenze tout court, straordinariamente si animano in architetture di pietre e di corpi. Già David Harvey qualche anno fa aveva rivendicato attenzione ai corpi viventi nelle città postmoderne, e prima di lui Italo Calvino nelle Città Invisibili (1972) aveva posto l’intrigo della interazione percettiva mistica, simbolica, fisica, tra viventi e cosmo, tra pietre e natura nelle città. Ora l’accentuarsi di ibridazioni, plurali, complesse, di società, etnie, culture, spiritualità, religioni, nelle città, chiama ulteriori attenzioni ai corpi e alle vite che le animano e vi generano irriducibili, appassionanti, diversità.
Infinite volte le città sono state ritratte con nature animate e inanimate, di persone, animali, paesaggi, con allusioni esplicite o simboliche, come mondi perfetti dì razionalità e artificialità in ideali stereometrie, come complessità e mistero in nature morte di vite fuggevoli, in complesse allusioni e alternanze a quanto vive e non-vive.
Nel ciclo delle città e dei corpi le due anime e parti sembrano cercarsi e al contempo sfuggirsi, celarsi, in irrisolta ibridazione. Le vite, che quelle città rappresentano e dominano, sono in fine anche celate, si tratti della giovane bulgara che forse vende il suo corpo come dell’indiano in cammino giorno e notte tra i quartieri in cerca di occasioni per sopravvivere. I corpi arretrano a tracce, simboli, sono identità inassimilabili. Ma le unicità delle impronte fisiche dei corpi tra architetture urbane evolutesi in storie lunghe e ibridate rigettano autorità maligne di individuazione, discriminazione, registrazione, controllo, selezione di accessi e possibilità, si traslano in somiglianze e complicità che pur consentono la distinzione del sè, sono nelle infinite nuances di pelli tramate che fanno le persone s’è stesse e al contempo parti di cosmologle urbane artificiali e umane brulicanti di vita e progettualità.
Lo spazio pubblico della molteplicità è scena essenziale, epistemologia, della vita nella città: un incontrarsi, vedersi, sentirsi, ascoltarsi, in piazze e strade, più intensamente che nel villaggio, nella piccola comunità, un luogo dove ragione e emozione e politica si sviluppano diversamente che in situazioni di singolarità, un sociale che sembra a tratti prevalere sull’individuale comunque irriducibile.
Lo spazio pubblico è questa irriducibile esperienza della specie umana: il luogo non necessariamente di continuità spaziale, dove si esercita l’esperienza dell’autonomia, della dipendenza, dell’unicità, della comunità, dei locale e del globale, della diversità, del confronto, del cambiamento conseguente al rapporto con l’altro, della ibridazione, della contaminazione, della conoscenza, della socializzazione, della parola, dell’ascolto, dei gioco, dell’affettuosità, delle regole, della trasgressione, dell’identità, del ri-conoscimento. Un luogo, dunque, inaccessibile a qualsiasi fondamentaIismo… Il luogo dove ogni individuo può essere e non il luogo della persona comune disseccata. Un luogo anche sacro poichè non è dato ne simularlo n’è formalizzarlo, governarlo o controllarlo. Un luogo dove si pratica la libertà e la democrazia… Un luogo irriducibile a qualsiasi tentativo di omologazione, assolutizzazione, semplificazione. Il luogo dove si celebra il mistero e la complessità del vivente… Come si costruisce questo luogo? (Scandurra, 2003, p. 75).
Gli spazi urbani del ciclo sono astrazioni, riduzioni a elementi fondamentali di più complesse identità spaziali, trame di segni e architetture e nature dove infinite vite costruiscono ambienti e territori propizi. Le città si identificano, così, rispetto a queste permanenze (Lavedan, 1926), sono spazi trasformati e adattati dove vite naturali – ancora segni, astrazioni, identità corporee identificabili attraverso quanto di esse s’imprime in altre fisicità – e artificiali interagiscono incessantemente.
Forse nulla come storie di longue durèe possono dirci, nel ciclo, di quelle città e comunità di viventi. Addis Ababa, il nuovo fiore dell’amarico, a tremila metri sull’altopiano dello Scioa etiopico battuto da piogge rovinose, là dove una fonte calda nella foresta sgorga a manifestare e propiziare la vita, è la moderna città di architetture artificiali della pietra e dei verde degli eucalipti fondata cent’anni fa per farla capitale abbandonando non-vive.
Nel ciclo delle città e dei corpi le due anime e parti sembrano cercarsi e al contempo sfuggirsi, celarsi, in irrisolta ibridazione. Le vite, che quelle città rappresentano e dominano, sono in fine anche celate, si tratti della giovane bulgara che forse vende il suo corpo come dell’indiano in cammino giorno e notte tra i quartieri in cerca di occasioni per sopravvivere. I corpi arretrano a tracce, simboli, sono identità inassimilabili. Ma le unicità delle impronte fisiche dei corpi tra architetture urbane evolutesi in storie lunghe e ibridate rigettano autorità maligne di individuazione, discriminazione, registrazione, controllo, selezione di accessi e possibilità, si traslano in somiglianze e complicità che pur consentono la distinzione del sè, sono nelle infinite nuances di pelli tramate che fanno le persone s’è stesse e al contempo parti di cosmologle urbane artificiali e umane brulicanti di vita e progettualità.
Lo spazio pubblico della molteplicità è scena essenziale, epistemologia, della vita nella città: un incontrarsi, vedersi, sentirsi, ascoltarsi, in piazze e strade, più intensamente che nel villaggio, nella piccola comunità, un luogo dove ragione e emozione e politica si sviluppano diversamente che in situazioni di singolarità, un sociale che sembra a tratti prevalere sull’individuale comunque irriducibile.
Lo spazio pubblico è questa irriducibile esperienza della specie umana: il luogo non necessariamente di continuità spaziale, dove si esercita l’esperienza dell’autonomia, della dipendenza, dell’unicità, della comunità, dei locale e del globale, della diversità, del confronto, del cambiamento conseguente al rapporto con l’altro, della ibridazione, della contaminazione, della conoscenza, della socializzazione, della parola, dell’ascolto, dei gioco, dell’affettuosità, delle regole, della trasgressione, dell’identità, del ri-conoscimento. Un luogo, dunque, inaccessibile a qualsiasi fondamentaIismo… Il luogo dove ogni individuo può essere e non il luogo della persona comune disseccata. Un luogo anche sacro poichè non è dato ne simularlo n’è formalizzarlo, governarlo o controllarlo. Un luogo dove si pratica la libertà e la democrazia… Un luogo irriducibile a qualsiasi tentativo di omologazione, assolutizzazione, semplificazione. Il luogo dove si celebra il mistero e la complessità del vivente… Come si costruisce questo luogo? (Scandurra, 2003, p. 75).
Gli spazi urbani del ciclo sono astrazioni, riduzioni a elementi fondamentali di più complesse identità spaziali, trame di segni e architetture e nature dove infinite vite costruiscono ambienti e territori propizi. Le città si identificano, così, rispetto a queste permanenze (Lavedan, 1926), sono spazi trasformati e adattati dove vite naturali – ancora segni, astrazioni, identità corporee identificabili attraverso quanto di esse s’imprime in altre fisicità – e artificiali interagiscono incessantemente.
Forse nulla come storie di longue durèe possono dirci, nel ciclo, di quelle città e comunità di viventi. Addis Ababa, il nuovo fiore dell’amarico, a tremila metri sull’altopiano dello Scioa etiopico battuto da piogge rovinose, là dove una fonte calda nella foresta sgorga a manifestare e propiziare la vita, è la moderna città di architetture artificiali della pietra e dei verde degli eucalipti fondata cent’anni fa per farla capitale abbandonando secolo lo statuto dell’Unione e dove al primi dei XIX si abolisce la schiavitù, la terra di mille contraddizioni, quella sottratta violentemente ai nativi, la città e il quartiere alimentati e distrutti dalla modernità e dagli interminabili intrecci di highways, il melting pot delle infinite ibridazioni e possibilità, la città per la cui porta d’immigrazione in Ellis Island in un crudele rito di riconoscimento transitano per decenni – nuovi dannati in cerca di terra promessa – tutti i poveri del mondo, la città di Ground Zero e dell’11 settembre per cui mille vasi di Pandora continuamente si schiudono.
Sofia, alta sui convergenti spartiacque di più bacini fluviali (Nisava, Iskar, Marica, Struma), la cinquecentesca capitale della Valacchia, la capitale bulgara dei XIX secolo, l’antica Serdica presa da Licinio Crasso nel I sec., l’Ulpia Serdica della colonia di veterani di Traiano, la sede del concilio contro l’eresia ariana, la città distrutta dagli Unni e ricostruita da Gustiniano, è la città per secoli e a turno bulgara, bizantina, turca, la città sulla via balcanica tra Belgrado e Istanbul dove slavi e mediorientali, bulgari, russi, ungheresi, cecoslovacchi, armeni, greci, turchi, si incontrano in chiese e moschee.
Sugli sfondi di questi spazi urbani stratificati e complessi sono le impronte dei corpi di Ayele, Chandra, Mattei, Roy, Martina, Jancu, Nabil, Claudio, Michele, Massimo, e forse di infinite altre vite, insieme unicità e duplicità e complicità, a costituire molteplici antropologie e epistemologie, essenze, fisicità, spiritualità, ambienti dove vite forse anche a caso gettate si sono incrociate e rigenerate.
La politica non tollera che si faccia riferimento all’esperienza quotidiana della nuda vita. Usa un linguaggio codificato, neutralizzato delle passioni e dei sentimenti, un linguaggio spesso morto che può solo confrontarsi con categorie note e prevedibili, ma che poco o niente ha a che fare con la vita autentica degli esseri umani.
I corpi, invece no. Essi non possono essere neutralizzati. Anche se ingessati in abito scuro e cravatta, prendono prima o poi il sopravvento vanificando le maschere, facendo saltare il bottone dei colletto, mortificando giacche e pantaloni, cravatte, con la loro ostentata e irriducibile materialità. E i corpi spesso parlano a dispetto dei loro proprietari perchè quali che siano i discorsi pronunciati, essi ci appaiono più familiari di tante parole. (Scandurra, 2003, p. 129-130)
In spazi urbani forse collegati da invisibili trame persone possono forse nascere, viaggiare, lavorare per distinguere e rimuovere diversità e forse dire:
Questa notte… Quale talento mi occorrerebbe per riuscire a conservare su questi fogli, per me, il miracolo di questa notte inverosimile, senza luna, coi cielo lavato dalla pioggia! Sono sceso dalla terrazza unicamente per scrivere. Sentivo di non poter più restare solo, lassù. Voglio imprimere questo miracolo nella mia memoria, nella mia memoria assurdamente debole. Qualcosa è successo, stasera. La notte che è caduta non è quella che conosco. Non c’è nè oscurità, nè spazio, né musicalità. I cespugli nel cortile, le piante nella veranda, tutto mi dice che è avvenuto qualcosa al di sopra di noi. Forse qualche nuova stella, qualche costellazione gloriosa nella quale la terra è entrata stasera. (Ellade, 1995)
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